FRATTEMPI

FRATTEMPI/4. La misura del Tempo


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è TEMPO di biodiversità

I presidi Slow Food del FVG

Il Festival FRATTEMPI mira a valorizzare le eccellenze del territorio regionale che producono Presidi Slow Food.

I Presidi coinvolgono direttamente i produttori, offrono l’assistenza per migliorare la qualità dei prodotti, facilitano scambi fra Paesi diversi e cercano nuovi sbocchi di mercato (locali e internazionali).

L'impegno del Festival è quello di far conoscere queste realtà, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi e nell’ottica della sostenibilità, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali.
A tal scopo sono stati scelti i seguenti presidi:

I Presidi sostengono le piccole produzioni locali che rischiano di scomparire, valorizzano territori, recuperano mestieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvano dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta, preservando la biodiversità.

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Rosa di Gorizia

Antiche mele dell'Alto Friuli

Varhackara di Timau

È il pregiatissimo radicchio rosso che da oltre due secoli illumina con i propri colori il rigido autunno dell’estremo nordest d’Italia. Una coltivazione limitata, tramandata di generazione in generazione e i cui segreti vengono gelosamente custoditi.

Una prelibatezza per soli buongustai, croccante e dotata di sapore intenso e leggermente amarognolo, da assaporare in purezza oppure da utilizzare per arricchire i migliori piatti della tradizione del Friuli Venezia Giulia.

La terra è una risorsa straordinaria cui è saggio e opportuno ritornare con rispetto, umiltà e dedizione.

La Rosa di Gorizia è un esempio fuori dal comune: nel campo deve prima soffrire il freddo e sopportare qualche dura gelata per esprimere poi al meglio le sue caratteristiche.

La coltivazione del melo nel territorio montano della nostra regione, nei territori delle province di Pordenone e di Udine, risale ai tempi della dominazione romana. Nell’ultimo secolo la maggior parte delle mele coltivate venne soppiantata da poche moderne varietà commerciali, di provenienza extralocale. Slow Food ha riunito un gruppo di agricoltori custodi di dieci varietà storiche (gialla di Priuso, di corone, ruggine dorata, rosso invernale, chei di rose, naranzinis, striato dolce, zeuka, Marc Panara, blancon) e ha proposto un disciplinare, che definisce l’area di produzione e prevede tecniche colturali sostenibili. Questa operazione è stata possibile anche per la presenza, in diversi comuni, di frutteti storici che documentano la grandissima varietà di mele antiche, generalmente rustiche e resistenti alle maggiori patologie della pianta, in un certo senso eredi di quella antichissima pratica colturale romana.

A Timau, frazione del comune di Paluzza, sopravvive la tradizionale preparazione di un “pesto” che propone un prodotto particolare della montagna friulana. Si tratta di un impasto di lardo bianco, speck, pancetta affumicata e l’aggiunta di qualche erba aromatica. Tradizionalmente è conservato in vasche di pietra e può essere consumato come antipasto, spalmato sul pane o sui crostini caldi; può essere usato come condimento di gnocchi di patate o di cjarsons (tipici ravioli della Carnia, ripieni di erbe o di prugne, con varie aggiunte, dal cacao amaro alla ricotta).

Il prodotto può essere acquistato solo da due produttori e la produzione è limitata per cui non sempre si riesce a trovarlo.

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Pitina

Çuç di mont

Aglio di Resia

Di origini contadine, nasce per soddisfare l’esigenza di conservare la carne nei mesi autunnali e invernali, in zone tradizionalmente povere, come quelle delle valli a nord di Pordenone: se si uccideva un camoscio o un capriolo, se si feriva o ammalava una pecora o una capra (troppo preziose per essere macellate), si doveva trovare il modo di non sprecare nulla. Da queste esigenze di conservazione delle carni nacquero la pitina e le sue varianti peta e petuccia, che differivano dalla pitina per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni più grandi.

L’animale veniva disossato e la carne triturata finemente nella pestadora (un ceppo di legno incavato). Alla carne si aggiungevano sale, aglio, pepe nero spezzettato. In Val Tramontina, zona di produzione della pitina, si univa anche rosmarino selvatico. In Val Cellina, area di produzione della petuccia, finocchio selvatico e bacche di ginepro. La peta, versione “magnum” della pitina, era tipica di Andreis, in Val Cellina: più grande della pitina e della petuccia, rotonda, leggermente schiacciata, poteva pesare anche un chilo. Con la carne macinata si formavano piccole polpette, si passavano nella farina di mais e si facevano affumicare sulla mensola del fogher. La pitina, col passar del tempo, si asciugava e per consumarla occorreva ammorbidirla nel brodo di polenta.

La Carnia, la Val Canale, il Canal del Ferro e tutta l’area delle Dolomiti Friulane, fino alla zona montana del Livenza, da sempre sono aree legate all’economia pastorale montana.
Qui, la pratica della malga, con la transumanza estiva dal fondovalle fino ai pascoli di alta quota, è millenaria. Le prime notizie risalgono a prima dell’anno 1000: già i documenti del patriarcato di Aquileia, infatti, definiscono regole precise per lo sfruttamento dei pascoli alpini. Storicamente, l’assegnazione delle malghe era a rotazione ed era difficile avere lo stesso alpeggio per più anni. Insieme alla transumanza, per generazioni le famiglie si sono tramandate la tecnica di preparazione del formadi di mont, detto çuç nella tradizione friulana. Un formaggio oggi poco conosciuto e valorizzato. La lavorazione prevede di miscelare nella caldaia il latte della sera prima (crudo e parzialmente scremato) insieme a quello appena munto. Quando la temperatura raggiunge i 32° – 36°C, si aggiunge il caglio (bovino) e si rompe la cagliata in grani piccoli come chicchi di riso. Quindi si porta a 44°- 47°C per circa 30 minuti. Dopo un periodo di riposo nella caldaia, si estrae la cagliata a mano, con l’aiuto di teli di lino, e si sistema in apposite fascere. Le forme sono pressate e rivoltate più volte e, la sera, sono immerse nella salamoia, dove rimangono per 24 ore. Infine si sistemano ad asciugare su assi di legno. Durante la stagionatura, le forme sono pulite e girate giornalmente. Il periodo di invecchiamento minimo è di 45 giorni ma il çuç di mont raggiunge le sue caratteristiche organolettiche migliori dopo un anno.

L'aglio di Resia, chiamato anche strok in dialetto resiano, è una tipologia di aglio coltivata esclusivamente nel comune di Resia, si presenta generalmente di piccole dimensioni con peculiari caratteristiche organolettiche che si manifestano in odore e sapore accentuato, è riconosciuto tra i prodotti agroalimentari tradizionali friulani e giuliani.

Il bulbo dell'aglio di Resia si presenta generalmente di piccole dimensioni come pure i bulbilli in esso contenuti in numero variabile da 6 a 8, e solo talvolta 10. Caratteristico è il colore rossastro assunto generalmente dal secondo strato delle tuniche sterili che rivestono il bulbo. Viceversa i bulbilli sono bianchi. Peculiari sono pure le caratteristiche organolettiche che si manifestano in odore e sapore più accentuato degli agli normalmente in commercio.

L’aglio di Resia viene coltivato nei piccoli appezzamenti sparsi sul territorio a ridosso delle frazioni del comune, fino a 1000 m. L’interramento dei bulbi avviene a circa 3 cm di profondità a seguito di una lavorazione poco profonda, ma accurata, esclusivamente eseguita a mano. I bulbilli vengono disposti con l’apice rivolto verso l’alto con distanze di 25-30 cm tra le file, e lo stesso dicasi sulla fila. Il piantamento dei bulbilli viene fatto in novembre a ridosso dei primi geli invernali, o a marzo in concomitanza del disgelo.

Tradizionalmente vengono confezionati mazzi di bulbi oppure trecce chiamati kitte in resiano che vengono conservati nei fienili o sotto le tettoie e successivamente vendute in forma diretta o portate al mercato, anticamente barattati con altre merci